lunedì 8 novembre 2010

Saviano: "Così racconterò i segreti della macchina del fango"

Dalla censura alle bugie sui compensi, la sfida di "Vieni via con me". Oggi in prima serata su RaiTre va in onda la prima puntata del programma con Fazio. "Nella tv italiana il diritto a parlare lo conquisti con gli ascolti. E questo, soprattutto la tv pubblica, è ingiusto"di ROBERTO SAVIANO

Io vorrei rivolgermi ai giovani, stasera, nella prima puntata di "Vieni via con me", per spiegare che la macchina del fango non è nata oggi, ma lavora da tempo. Quando si dà fastidio a chi comanda si attiva un meccanismo fatto di dossier, di giornalisti conniventi, di politici faccendieri che cercano attraverso media e ricatti di delegittimare i rivali.

Qualunque sia il tuo stile di vita, qualunque sia il tuo lavoro, qualunque sia il tuo pensiero, se ti poni contro certi poteri questi risponderanno sempre con un'unica
strategia: delegittimare. Delegittimare il rivale agli occhi della pubblica opinione, cercare di renderlo nudo raccontando storie su di lui, descrivere comportamenti intimi per metterlo in difficoltà, così che le persone quando lo vedono comparire in pubblico possano tenere in mente le immagini raccontate e non considerarlo credibile.
Questa è disinformazione, più sottile della semplice calunnia che agisce soprattutto con i nemici. La disinformazione invece punta a distruggere le vittime nel campo degli amici, seminando quei dubbi e quei sospetti che proprio gli amici debbono temere.

La macchina del fango è il tema della prima puntata di "Vieni via con me", la trasmissione che per la prima volta mi ha messo alla prova come autore televisivo. Anche questa è una esperienza da raccontare. Lavorare ad un programma, costruirlo dal suo primo minuto all'ultimo ha qualcosa di irreale per uno che fa lo scrittore.
Sulla pagina tutto ciò che scrivi  è spazio di immaginazione, tutto ciò che racconti può essere vissuto, pensato e rielaborato nella testa e nell'anima del lettore. Con la tv questo non lo puoi generare, le parole non sono scritte, le parole in tv si devono vedere. La narrazione è più efficace proprio quando non cerchi di riprodurre fedelmente la vita, ma quando con onestà la trasformi in un racconto. E nel racconto televisivo gli articoli sono le luci dello studio, gli aggettivi sono i filmati, i verbi sono i movimenti di scena, le frasi sono le inquadrature, la punteggiatura sono gli ospiti. In un tempo limitato deve entrare tutto: la volontà di raccontare uno spaccato significativo di esistenza e l'onestà di raccontarla come un punto di vista, non come verità assoluta. Capisci di essere un abusivo della tv, così come lo sono stato del teatro. In fondo tranne che sulla pagina ti senti straniero ovunque e forse questa è anche la magia di chi lavora con le parole, quella di doversi riconquistare ogni volta sul campo la legittimità a pronunciarle.

"Vieni via con me" era nata come una trasmissione che voleva raccontare il Paese con l'obiettivo di far bene le cose che crediamo di poter offrire al pubblico. Poi lentamente ci siamo accorti che iniziavamo a non essere graditi e arrivarono molti segnali in questo senso. Segnali che ci impedivano di continuare a lavorare. Poi siamo riusciti a riprenderci almeno in parte il nostro spazio di lavoro, a non farci cancellare. Il tanto rumore per nulla, di cui spesso si è accusati, quel pensiero latente di chi dice: "Avete visto, tanto gridare alla censura e poi la trasmissione la fate, e alle vostre condizioni".

Se fossimo stati in silenzio subendo le condizioni che la Rai di Masi ci stava dando, avremmo lavorato nella consapevolezza di stare costruendo qualcosa che non era nei patti e soprattutto non coincideva con le idee che avevo, con i racconti che avevo preparato. Nel caso della televisione italiana purtroppo il diritto a parlare lo conquisti con gli ascolti e con una comunità pronta a difenderti. Senza ascolti non si ha una seconda opportunità. E questo soprattutto per la tv pubblica è una dialettica ingiusta, bisognerebbe guardare alla qualità, alla necessità di un programma. Perché ti si giudichi per quello che sai fare e per quanto vali non è sufficiente fare bene il tuo lavoro, ma diventa necessario anche difenderlo e con molto rumore se la situazione lo richiede.

Questo è il nuovo meccanismo della censura, porre mille difficoltà alla realizzazione di un progetto, ma nell'ombra, in sedi il cui accesso è riservato a pochi, a persone coinvolte, che hanno tutto da perdere a mostrare i meccanismi e poco o nulla da guadagnare. E poi far parlare i fatti: "Andate male", "Non vi guarda nessuno", "Avete fatto ascolti da terza serata". Se l'unica protezione, oggi, alla televisione che non sia reality, che non sia leggero intrattenimento sono gli ascolti, l'unico modo per tagliare fuori chi ha proposte non migliori, non politicamente impegnate, ma semplicemente alternative, è dimostrare che quel tipo di racconto non ha mercato. Togliere i mezzi perché la qualità si affermi, ridurre luce perché resti in ombra il discorso: questo il nuovo modo per far morire in televisione tutto ciò che può essere cultura, racconto, libri, e facilmente dire "non funzionano", per poter investire su altro.

E così spesso hai la sensazione di lavorare non con il tuo editore ma contro di lui. E se da un progetto di quattro puntate si passa a due, e se poi le due puntate devono competere con partite di coppa a chi raccontiamo che gli ascolti sono stati bassi perché quelle erano le condizioni e non altre? A chi raccontiamo che non si tratta di dettagli ma di pilastri che quando si progetta una trasmissione contano quasi quanto i contenuti? A chi raccontiamo che non vale il "fate bene il vostro lavoro che poi raccoglierete i frutti".
E poi le balle sui compensi dette in un Paese come il nostro, irritato, esacerbato, esausto. Che campa con stipendi da fame. Nessuno, ma proprio nessuno che abbia detto cifre vere, perché lo scopo era innescare diffidenza, non dare informazioni. Del resto i compensi sono generati dal mercato e non da un'idea. Sono direttamente proporzionali a quanto fai guadagnare. E non ci sarebbe nulla di immorale a parlarne se non fossimo vittime del preconcetto secondo cui chi guadagna lo fa sempre senza merito alcuno. Che lavoro è il tuo: criticare a pagamento? Forse è inutile spiegare che si tratta di altro. Del resto, tutto questo ciarpame evapora di fronte al sorriso di Benigni. Di fronte al genio organizzativo di Fabio Fazio che è anche altro dal preciso conduttore che siamo abituati a vedere. E poi Claudio Abbado, un uomo raro, delicato ma che ruggisce ogni qual volta s'imbatte nella stupidità del potere, nella bruttezza dell'ignoranza. Un passerotto da combattimento per usare le parole di Faber. Di loro il nostro Paese ha bisogno come dell'aria.

In ultimo le prove durante le quali, per quanto blindate, cercano di ficcarsi persone pronte a riportare il minimo dettaglio. Il clima del Paese lo intuiscono tutti, ed è un clima di profonda diffidenza. E di più teme chi ha paura che lo si sveli. E quindi in molti a spiare e cercare di carpire. Ma lo sappiamo, e quindi durante le prove sappiamo anche cosa non dire: passaggi, considerazioni, racconti che in diretta soltanto si potranno ascoltare. In trasmissione giocheremo con gli elenchi invitando tutti, personaggi più o meno noti e gente comune, a dirci i motivi per cui vale la pena restare in Italia o per cui vale la pena andare via, emigrare, cercare realizzazione altrove. Abbiamo iniziato a raccogliere elenchi e commenti, ci aspettavamo una valanga di malanimo. Immaginavamo che le persone, anche coloro che sono emigrate, guardassero al nostro Paese, al loro Paese, come a una palude che ti impedisce qualunque tipo di realizzazione. E invece non è così. Ed è per questo che siamo qui, per provare a raccontare quella parte del Paese, che è la più grande, che ha voglia di ridisegnare questa terra, ha voglia di dire che non siamo tutti uguali, che la nostra diversità risiede nel saper sbagliare senza essere corrotti, nell'avere delle debolezze che non comportino ricatti ed estorsioni. E nel sognare, senza vergognarcene, di tornare a chiamare questa terra ora tanto infelice, patria.
 
(08 novembre 2010)

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