venerdì 20 maggio 2011

L’isola di Mario Ciancio detto "zio Mario"

È l’uomo più potente della Sicilia, più di Cuffaro o Lombardo, più di Pippo Baudo, di cui è stato testimone di nozze. Basti pen­sare che fino al 2001 occupava la poltrona di presidente della Fieg, la Federazione de­gli editori italiani. Poi su quella poltrona si accomodò Luca Cordero di Montezemolo e lui non batté ciglio, si alzò e se ne tornò a Catania dove dal primo piano del suo quoti­diano - dove da tanti anni ricopre la doppia carica di padrone e direttore - continua a mantenere i contatti con l’establishment na­zionale.

Non tanto per il gusto di comanda­re, quanto soprattutto di “fottere”, che nel­l’accezione catanese vuol dire farsi gli affa­ri propri. Un verbo che nella città più mer­cantile del Meridione si attribuisce comu­nemente agli
“sperti”, ai furbi. E lui, Mario Ciancio Sanfilippo, settant’anni, editore de La Sicilia - unico quotidiano del capoluogo etneo -, “sperto” lo è veramente: un padro­ne che non fa mai pesare la sua superiorità, al punto che all’interno del giornale lo chia­mano affettuosamente lo “zio Mario”. Cor­diale, discreto, una passione quasi morbosa per l’antiquariato, non rilascia interviste, non firma mai un editoriale. Ma in compen­so regna. Condiziona sindaci, consiglieri comunali e provinciali, deputati, presidenti di enti pubblici. I quali per ottenere un bri­ciolo di visibilità devono andare da lui, pa­gandolo profumatamente non solo sotto forma di intere pagine di pubblicità, ma di delibere, di appalti, di varianti, di acquisti, di commesse. I politici sgraditi vengono semplicemente ignorati. Un esempio per tutti, Claudio Fava, da oltre un ventennio suo massimo oppositore, che alle elezioni europee qual­che anno fa risultò il primo degli eletti nel­l’isola. I siciliani seppero la notizia dai giornali nazionali. Si dice che Ciancio riesca a controllare perfino le agenzie di distribuzione dei gior­nali: quelle rare volte che in città nasce un nuovo quotidiano - che regolarmente muore nello spazio di un mattino - gli edicolanti, invece di esporlo, lo tengono sotto il banco­ne. Tanto per non tradire lo “zio Mario”. L’editore della Sicilia possiede anche smisurati ettari di terreni, alberghi, una casa editrice che pubblica costosissimi volumi regolarmente acquistati dagli enti pubblici, e ovviamente tutte le emittenti televisive locali che trasmettono nell’isola. Qualche anno fa, assieme a Cesare Romiti, ha messo le mani pure su Mtv. Da poco tempo è vice­presidente dell’Ansa, la terza agenzia d’in­formazione del mondo. Un potere che crea potere, che a sua volta consente di fare af­fari. L’ultimo, in ordine di tempo, la tra­sformazione di un terreno agricolo di 240­mila metri quadrati - di cui Ciancio risulta proprietario - in area commerciale. Tutto questo grazie alla variante votata dalla maggioranza di centrodestra presente in Consiglio comunale, che su quei terreni ha deciso di far costruire uno dei centri com­merciali più grandi d’Italia, il cui progetto è stato presentato da una società di cui l’ex presidente della Fieg fa parte. Ma queste sono quisquilie, direbbe Totò. Quel che bisogna chiedersi è come mai il proprietario di un quotidiano di provincia sia riuscito a diventare il punto di conver­genza dei grandi editori nazionali, diven­tando addirittura il loro presidente. Sulla potenza di Mario Ciancio circolano varie leggende metropolitane, mai verificate, non ultima la sua presunta appartenenza alla massoneria, su cui non ci sono prove. La verità è che il potere lui se l’è guada­gnato giorno per giorno, lavorando anche di notte per far crescere il suo impero editoria­le. At­traverso una precisa strategia: stare sempre dalla parte dei potenti, sia di destra che di sinistra, “narcotizzare” la città attra­verso dosi massicce di cronache addomesti­cate, spargere veleni contro qualcuno inviso al sistema. Come è accaduto nei confronti di Giusep­pe Fava, direttore della rivista I Sici­liani, ucciso dalla mafia nel 1984, unico a rac­contare i perversi legami fra le organizza­zioni criminali, la P2 e i quattro Cavalieri del lavoro (Rendo, Graci, Finocchiaro e Costanzo), quando ancora il giornale di Ciancio negava perfino l’esistenza di Cosa nostra a Catania. All’epoca Ciancio non era l’uomo potente di oggi. Coltivava i suoi in­teressi ma divideva il potere con i quattro Cavalieri, che avevano appalti in tutto il mondo. Aveva già acquistato quote del Giornale di Sicilia di Palermo, della Gazzetta del Sud di Messina, e del quotidiano pugliese La Gazzetta del Mezzogiorno, nonché alcune azioni di Repubblica e dell’Espresso. Quando il giornale di Eugenio Scalfari decise di aprire una redazione a Catania, lui riuscì a bloccare il progetto proponendo di stampare nel suo stabilimento. A prezzi stracciati. La redazione di Repubblica si fece, ma a Palermo. Ogni giorno nell’inser­to siciliano si possono leggere le notizie di tutta la Sicilia, tranne quelle delle province di Catania, Siracusa e Ragusa dove, guarda caso, l’editore della Sicilia ha il mo­nopolio assoluto dell’informazione e dove riesce a rastrellare il massimo della pubbli­cità. Mario Ciancio si sdebitò qualche anno dopo, allorquando scoppiò la guerra tra Berlusconi e De Benedetti per l’acquisizio­ne del Gruppo L’Espresso. Fu proprio lui a non vendere la sua quota a Sua Emittenza - decisiva ai fini del controllo editoriale - schierandosi dalla parte del patron dell’Oli­vetti. Quando, alla fine degli anni Ottanta, pensò di rilanciare il giornale, decise di ce­dere la carica di direttore al catanese Nino Milazzo, all’epoca vicedirettore del Corrie­re della Sera, ma giornalisticamente nato nella redazione della Sicilia. Sotto la guida Milazzo - che aveva lascia­to via Solferino “per un atto d’amore” ver­so la sua città - La Sicilia migliorò notevol­mente. Ma il matri­monio durò poco: diversi mesi dopo, l’ex vice di Piero Ostellino ven­ne licenziato. Al­cuni dicono per screzi av­venuti con un giornalista, altri per le censu­re che Milazzo non avrebbe accettato su certi scandali che riguardavano i Cavalieri del lavoro. In poco tempo, Nino Milazzo si ritrovò dalle stelle alle stalle, dal Corriere della Sera a disoc­cupato di lusso. Ciancio capì la lezione e da quel momen­to blindò la poltrona di diretto­re. Quando i Cavalieri del lavoro caddero in disgrazia per via di Mani pulite, lui di­ventò il padro­ne assoluto di Catania. Non c’è carica isti­tuzionale - presidenti della Repubblica, pre­sidenti del Consiglio, mini­stri, sottosegreta­ri - che, sbarcata nel capo­luogo etneo, non vada a fargli visita. Certo, non solo loro. Qualche volta può capitare che in redazione si rechi qualche pezzo da novanta del cri­mine organizzato. Per esempio il padre di Aldo Ercolano (il killer di Giuseppe Fava), cognato del capomafia Nitto Santapaola. Poi un giorno a Catania scoppiò il caso dell’appalto dell’ospedale Garibaldi, una storia di tangenti in cui erano implicati par­lamentari, mafiosi, faccendieri, e anche il braccio destro di Ciancio. Lui, lo “zio Ma­rio”, conservò una calma olimpica facendo intendere di avere fiducia nella giustizia. Il processo è in atto. Laddove, invece, la giustizia si è dimo­strata assolutamente impotente è stato anni fa a Taormina, quando Ciancio costruì l’ho­tel Villa San Pietro, un albergo di dieci pia­ni in una zona dove la Regione, la Sovrin­tendenza ai beni culturali e il Consiglio co­munale avevano apposto un vincolo di tota­le inedificabilità. Un divieto che valeva per tutti, ma non per l’ex presidente della Fieg, che grazie alla provvidenziale rimozione del vincolo da parte degli stessi organi che lo avevano imposto, ha potuto realizzare l’hotel, malgrado i ricorsi, le proteste e le denunce di chi - albergatori compresi - si erano ritenuti danneggiati dalla struttura. Malgrado un’ordinanza del della giustizia amministrativa che aveva sospeso i lavori. Lui dice che l’albergo lo ha realizzato per dare lavoro. Più o meno lo stesso ritornello che viene ripetuto negli editoriali riguar­danti il Ponte sullo Stretto. Che Ciancio af­fida spesso alla penna del giornalista di punta della Sicilia, Tony Zermo, il quale non perde occasione per decantare «le ma­gnifiche sorti progressive» che un’opera del genere porterebbe all’economia della regio­ne. Ovviamente, senza ospitare un articolo che spieghi le tesi opposte.

Luciano Mirone

http://www.ucuntu.org/L-isola-di-Mario-Ciancio.html

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