È l’uomo più potente della Sicilia, più di Cuffaro o Lombardo, più di Pippo Baudo, di cui è stato testimone di nozze. Basti pensare che fino al 2001 occupava la poltrona di presidente della Fieg, la Federazione degli editori italiani. Poi su quella poltrona si accomodò Luca Cordero di Montezemolo e lui non batté ciglio, si alzò e se ne tornò a Catania dove dal primo piano del suo quotidiano - dove da tanti anni ricopre la doppia carica di padrone e direttore - continua a mantenere i contatti con l’establishment nazionale.
Non tanto per il gusto di comandare, quanto soprattutto di “fottere”, che nell’accezione catanese vuol dire farsi gli affari propri. Un verbo che nella città più mercantile del Meridione si attribuisce comunemente agli
“sperti”, ai furbi. E lui, Mario Ciancio Sanfilippo, settant’anni, editore de La Sicilia - unico quotidiano del capoluogo etneo -, “sperto” lo è veramente: un padrone che non fa mai pesare la sua superiorità, al punto che all’interno del giornale lo chiamano affettuosamente lo “zio Mario”. Cordiale, discreto, una passione quasi morbosa per l’antiquariato, non rilascia interviste, non firma mai un editoriale. Ma in compenso regna. Condiziona sindaci, consiglieri comunali e provinciali, deputati, presidenti di enti pubblici. I quali per ottenere un briciolo di visibilità devono andare da lui, pagandolo profumatamente non solo sotto forma di intere pagine di pubblicità, ma di delibere, di appalti, di varianti, di acquisti, di commesse. I politici sgraditi vengono semplicemente ignorati. Un esempio per tutti, Claudio Fava, da oltre un ventennio suo massimo oppositore, che alle elezioni europee qualche anno fa risultò il primo degli eletti nell’isola. I siciliani seppero la notizia dai giornali nazionali. Si dice che Ciancio riesca a controllare perfino le agenzie di distribuzione dei giornali: quelle rare volte che in città nasce un nuovo quotidiano - che regolarmente muore nello spazio di un mattino - gli edicolanti, invece di esporlo, lo tengono sotto il bancone. Tanto per non tradire lo “zio Mario”. L’editore della Sicilia possiede anche smisurati ettari di terreni, alberghi, una casa editrice che pubblica costosissimi volumi regolarmente acquistati dagli enti pubblici, e ovviamente tutte le emittenti televisive locali che trasmettono nell’isola. Qualche anno fa, assieme a Cesare Romiti, ha messo le mani pure su Mtv. Da poco tempo è vicepresidente dell’Ansa, la terza agenzia d’informazione del mondo. Un potere che crea potere, che a sua volta consente di fare affari. L’ultimo, in ordine di tempo, la trasformazione di un terreno agricolo di 240mila metri quadrati - di cui Ciancio risulta proprietario - in area commerciale. Tutto questo grazie alla variante votata dalla maggioranza di centrodestra presente in Consiglio comunale, che su quei terreni ha deciso di far costruire uno dei centri commerciali più grandi d’Italia, il cui progetto è stato presentato da una società di cui l’ex presidente della Fieg fa parte. Ma queste sono quisquilie, direbbe Totò. Quel che bisogna chiedersi è come mai il proprietario di un quotidiano di provincia sia riuscito a diventare il punto di convergenza dei grandi editori nazionali, diventando addirittura il loro presidente. Sulla potenza di Mario Ciancio circolano varie leggende metropolitane, mai verificate, non ultima la sua presunta appartenenza alla massoneria, su cui non ci sono prove. La verità è che il potere lui se l’è guadagnato giorno per giorno, lavorando anche di notte per far crescere il suo impero editoriale. Attraverso una precisa strategia: stare sempre dalla parte dei potenti, sia di destra che di sinistra, “narcotizzare” la città attraverso dosi massicce di cronache addomesticate, spargere veleni contro qualcuno inviso al sistema. Come è accaduto nei confronti di Giuseppe Fava, direttore della rivista I Siciliani, ucciso dalla mafia nel 1984, unico a raccontare i perversi legami fra le organizzazioni criminali, la P2 e i quattro Cavalieri del lavoro (Rendo, Graci, Finocchiaro e Costanzo), quando ancora il giornale di Ciancio negava perfino l’esistenza di Cosa nostra a Catania. All’epoca Ciancio non era l’uomo potente di oggi. Coltivava i suoi interessi ma divideva il potere con i quattro Cavalieri, che avevano appalti in tutto il mondo. Aveva già acquistato quote del Giornale di Sicilia di Palermo, della Gazzetta del Sud di Messina, e del quotidiano pugliese La Gazzetta del Mezzogiorno, nonché alcune azioni di Repubblica e dell’Espresso. Quando il giornale di Eugenio Scalfari decise di aprire una redazione a Catania, lui riuscì a bloccare il progetto proponendo di stampare nel suo stabilimento. A prezzi stracciati. La redazione di Repubblica si fece, ma a Palermo. Ogni giorno nell’inserto siciliano si possono leggere le notizie di tutta la Sicilia, tranne quelle delle province di Catania, Siracusa e Ragusa dove, guarda caso, l’editore della Sicilia ha il monopolio assoluto dell’informazione e dove riesce a rastrellare il massimo della pubblicità. Mario Ciancio si sdebitò qualche anno dopo, allorquando scoppiò la guerra tra Berlusconi e De Benedetti per l’acquisizione del Gruppo L’Espresso. Fu proprio lui a non vendere la sua quota a Sua Emittenza - decisiva ai fini del controllo editoriale - schierandosi dalla parte del patron dell’Olivetti. Quando, alla fine degli anni Ottanta, pensò di rilanciare il giornale, decise di cedere la carica di direttore al catanese Nino Milazzo, all’epoca vicedirettore del Corriere della Sera, ma giornalisticamente nato nella redazione della Sicilia. Sotto la guida Milazzo - che aveva lasciato via Solferino “per un atto d’amore” verso la sua città - La Sicilia migliorò notevolmente. Ma il matrimonio durò poco: diversi mesi dopo, l’ex vice di Piero Ostellino venne licenziato. Alcuni dicono per screzi avvenuti con un giornalista, altri per le censure che Milazzo non avrebbe accettato su certi scandali che riguardavano i Cavalieri del lavoro. In poco tempo, Nino Milazzo si ritrovò dalle stelle alle stalle, dal Corriere della Sera a disoccupato di lusso. Ciancio capì la lezione e da quel momento blindò la poltrona di direttore. Quando i Cavalieri del lavoro caddero in disgrazia per via di Mani pulite, lui diventò il padrone assoluto di Catania. Non c’è carica istituzionale - presidenti della Repubblica, presidenti del Consiglio, ministri, sottosegretari - che, sbarcata nel capoluogo etneo, non vada a fargli visita. Certo, non solo loro. Qualche volta può capitare che in redazione si rechi qualche pezzo da novanta del crimine organizzato. Per esempio il padre di Aldo Ercolano (il killer di Giuseppe Fava), cognato del capomafia Nitto Santapaola. Poi un giorno a Catania scoppiò il caso dell’appalto dell’ospedale Garibaldi, una storia di tangenti in cui erano implicati parlamentari, mafiosi, faccendieri, e anche il braccio destro di Ciancio. Lui, lo “zio Mario”, conservò una calma olimpica facendo intendere di avere fiducia nella giustizia. Il processo è in atto. Laddove, invece, la giustizia si è dimostrata assolutamente impotente è stato anni fa a Taormina, quando Ciancio costruì l’hotel Villa San Pietro, un albergo di dieci piani in una zona dove la Regione, la Sovrintendenza ai beni culturali e il Consiglio comunale avevano apposto un vincolo di totale inedificabilità. Un divieto che valeva per tutti, ma non per l’ex presidente della Fieg, che grazie alla provvidenziale rimozione del vincolo da parte degli stessi organi che lo avevano imposto, ha potuto realizzare l’hotel, malgrado i ricorsi, le proteste e le denunce di chi - albergatori compresi - si erano ritenuti danneggiati dalla struttura. Malgrado un’ordinanza del della giustizia amministrativa che aveva sospeso i lavori. Lui dice che l’albergo lo ha realizzato per dare lavoro. Più o meno lo stesso ritornello che viene ripetuto negli editoriali riguardanti il Ponte sullo Stretto. Che Ciancio affida spesso alla penna del giornalista di punta della Sicilia, Tony Zermo, il quale non perde occasione per decantare «le magnifiche sorti progressive» che un’opera del genere porterebbe all’economia della regione. Ovviamente, senza ospitare un articolo che spieghi le tesi opposte.
http://www.ucuntu.org/L-isola-di-Mario-Ciancio.html
“sperti”, ai furbi. E lui, Mario Ciancio Sanfilippo, settant’anni, editore de La Sicilia - unico quotidiano del capoluogo etneo -, “sperto” lo è veramente: un padrone che non fa mai pesare la sua superiorità, al punto che all’interno del giornale lo chiamano affettuosamente lo “zio Mario”. Cordiale, discreto, una passione quasi morbosa per l’antiquariato, non rilascia interviste, non firma mai un editoriale. Ma in compenso regna. Condiziona sindaci, consiglieri comunali e provinciali, deputati, presidenti di enti pubblici. I quali per ottenere un briciolo di visibilità devono andare da lui, pagandolo profumatamente non solo sotto forma di intere pagine di pubblicità, ma di delibere, di appalti, di varianti, di acquisti, di commesse. I politici sgraditi vengono semplicemente ignorati. Un esempio per tutti, Claudio Fava, da oltre un ventennio suo massimo oppositore, che alle elezioni europee qualche anno fa risultò il primo degli eletti nell’isola. I siciliani seppero la notizia dai giornali nazionali. Si dice che Ciancio riesca a controllare perfino le agenzie di distribuzione dei giornali: quelle rare volte che in città nasce un nuovo quotidiano - che regolarmente muore nello spazio di un mattino - gli edicolanti, invece di esporlo, lo tengono sotto il bancone. Tanto per non tradire lo “zio Mario”. L’editore della Sicilia possiede anche smisurati ettari di terreni, alberghi, una casa editrice che pubblica costosissimi volumi regolarmente acquistati dagli enti pubblici, e ovviamente tutte le emittenti televisive locali che trasmettono nell’isola. Qualche anno fa, assieme a Cesare Romiti, ha messo le mani pure su Mtv. Da poco tempo è vicepresidente dell’Ansa, la terza agenzia d’informazione del mondo. Un potere che crea potere, che a sua volta consente di fare affari. L’ultimo, in ordine di tempo, la trasformazione di un terreno agricolo di 240mila metri quadrati - di cui Ciancio risulta proprietario - in area commerciale. Tutto questo grazie alla variante votata dalla maggioranza di centrodestra presente in Consiglio comunale, che su quei terreni ha deciso di far costruire uno dei centri commerciali più grandi d’Italia, il cui progetto è stato presentato da una società di cui l’ex presidente della Fieg fa parte. Ma queste sono quisquilie, direbbe Totò. Quel che bisogna chiedersi è come mai il proprietario di un quotidiano di provincia sia riuscito a diventare il punto di convergenza dei grandi editori nazionali, diventando addirittura il loro presidente. Sulla potenza di Mario Ciancio circolano varie leggende metropolitane, mai verificate, non ultima la sua presunta appartenenza alla massoneria, su cui non ci sono prove. La verità è che il potere lui se l’è guadagnato giorno per giorno, lavorando anche di notte per far crescere il suo impero editoriale. Attraverso una precisa strategia: stare sempre dalla parte dei potenti, sia di destra che di sinistra, “narcotizzare” la città attraverso dosi massicce di cronache addomesticate, spargere veleni contro qualcuno inviso al sistema. Come è accaduto nei confronti di Giuseppe Fava, direttore della rivista I Siciliani, ucciso dalla mafia nel 1984, unico a raccontare i perversi legami fra le organizzazioni criminali, la P2 e i quattro Cavalieri del lavoro (Rendo, Graci, Finocchiaro e Costanzo), quando ancora il giornale di Ciancio negava perfino l’esistenza di Cosa nostra a Catania. All’epoca Ciancio non era l’uomo potente di oggi. Coltivava i suoi interessi ma divideva il potere con i quattro Cavalieri, che avevano appalti in tutto il mondo. Aveva già acquistato quote del Giornale di Sicilia di Palermo, della Gazzetta del Sud di Messina, e del quotidiano pugliese La Gazzetta del Mezzogiorno, nonché alcune azioni di Repubblica e dell’Espresso. Quando il giornale di Eugenio Scalfari decise di aprire una redazione a Catania, lui riuscì a bloccare il progetto proponendo di stampare nel suo stabilimento. A prezzi stracciati. La redazione di Repubblica si fece, ma a Palermo. Ogni giorno nell’inserto siciliano si possono leggere le notizie di tutta la Sicilia, tranne quelle delle province di Catania, Siracusa e Ragusa dove, guarda caso, l’editore della Sicilia ha il monopolio assoluto dell’informazione e dove riesce a rastrellare il massimo della pubblicità. Mario Ciancio si sdebitò qualche anno dopo, allorquando scoppiò la guerra tra Berlusconi e De Benedetti per l’acquisizione del Gruppo L’Espresso. Fu proprio lui a non vendere la sua quota a Sua Emittenza - decisiva ai fini del controllo editoriale - schierandosi dalla parte del patron dell’Olivetti. Quando, alla fine degli anni Ottanta, pensò di rilanciare il giornale, decise di cedere la carica di direttore al catanese Nino Milazzo, all’epoca vicedirettore del Corriere della Sera, ma giornalisticamente nato nella redazione della Sicilia. Sotto la guida Milazzo - che aveva lasciato via Solferino “per un atto d’amore” verso la sua città - La Sicilia migliorò notevolmente. Ma il matrimonio durò poco: diversi mesi dopo, l’ex vice di Piero Ostellino venne licenziato. Alcuni dicono per screzi avvenuti con un giornalista, altri per le censure che Milazzo non avrebbe accettato su certi scandali che riguardavano i Cavalieri del lavoro. In poco tempo, Nino Milazzo si ritrovò dalle stelle alle stalle, dal Corriere della Sera a disoccupato di lusso. Ciancio capì la lezione e da quel momento blindò la poltrona di direttore. Quando i Cavalieri del lavoro caddero in disgrazia per via di Mani pulite, lui diventò il padrone assoluto di Catania. Non c’è carica istituzionale - presidenti della Repubblica, presidenti del Consiglio, ministri, sottosegretari - che, sbarcata nel capoluogo etneo, non vada a fargli visita. Certo, non solo loro. Qualche volta può capitare che in redazione si rechi qualche pezzo da novanta del crimine organizzato. Per esempio il padre di Aldo Ercolano (il killer di Giuseppe Fava), cognato del capomafia Nitto Santapaola. Poi un giorno a Catania scoppiò il caso dell’appalto dell’ospedale Garibaldi, una storia di tangenti in cui erano implicati parlamentari, mafiosi, faccendieri, e anche il braccio destro di Ciancio. Lui, lo “zio Mario”, conservò una calma olimpica facendo intendere di avere fiducia nella giustizia. Il processo è in atto. Laddove, invece, la giustizia si è dimostrata assolutamente impotente è stato anni fa a Taormina, quando Ciancio costruì l’hotel Villa San Pietro, un albergo di dieci piani in una zona dove la Regione, la Sovrintendenza ai beni culturali e il Consiglio comunale avevano apposto un vincolo di totale inedificabilità. Un divieto che valeva per tutti, ma non per l’ex presidente della Fieg, che grazie alla provvidenziale rimozione del vincolo da parte degli stessi organi che lo avevano imposto, ha potuto realizzare l’hotel, malgrado i ricorsi, le proteste e le denunce di chi - albergatori compresi - si erano ritenuti danneggiati dalla struttura. Malgrado un’ordinanza del della giustizia amministrativa che aveva sospeso i lavori. Lui dice che l’albergo lo ha realizzato per dare lavoro. Più o meno lo stesso ritornello che viene ripetuto negli editoriali riguardanti il Ponte sullo Stretto. Che Ciancio affida spesso alla penna del giornalista di punta della Sicilia, Tony Zermo, il quale non perde occasione per decantare «le magnifiche sorti progressive» che un’opera del genere porterebbe all’economia della regione. Ovviamente, senza ospitare un articolo che spieghi le tesi opposte.
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